Il senso delle cose secondo il caso

Un incontro avuto da poco, mi ha ricordato che la presenza del caso è spesso evidente quanto beffarda. Essa ci consente, se non siamo troppo avidi, di godere momenti di intensa, pura e isolata felicità. Lo stesso incontro mi ha inoltre permesso, cosa ancora più apprezzata, di approfondire una riflessione che da tempo circolava nella mia mente e poi scivolava via, senza lasciare alcuna traccia. La riflessione, certamente sdoganata, sul senso comune della vita; sulla consapevolezza - del tutto post contemporanea - che esso non sia poi così comune ma piuttosto personale e individuale, e su come non sempre sia facile accettarla. 

La storia di questo incontro e delle riflessioni che ne sono seguite inizia una mattina. La mattina di un giorno festivo mentre facevo colazione nel giardino di uno dei posti che amo di più nel mio quartiere. Quella mattina mangiavo un delizioso pezzo di crostata alle visciole e leggevo l’Internazionale, sapevo già che non avrei fatto molto di quella giornata - da quando sono rientrata in città e vivo sola, mi permetto spesso di trascorrere giorni intensamente vuoti e senza un programma definito - per questa ragione quella mattina stavo vivendo tutto con molta calma. Anche la lettura del mio giornale procedeva lenta, e ricca di pause. Mentre mi dedicavo alla mia colazione e alla lettura, notai un volto che mi osservava; non che fossi inquieta ma quel volto ebbe la capacità di rassicurarmi, non so rispetto a cosa, e per questo sarebbe meglio dire che semplicemente mi fece sentire compresa, lo sentì stranamente affine. Per tutto il tempo che rimasi seduta a leggere, non mi lasció sola, percepivo quella presenza distaccata come una curiosa compagnia. Peccato che dietro gli occhiali da sole non fu possibile vedere quello sguardo. 
Quando mi alzai per andare via, quel volto era ancora lì, attaccato a quel corpo seduto e fumante. Decisi di prendere tempo passeggiando e senza allontanarmi troppo dal locale, ma non so bene perché. Poco più di un quarto d’ora dopo ci incrociammo di nuovo; due persone sconosciute, una difronte all'altra, separate dal rosso di un semaforo, vicine come il coraggio di stendere una mano che vorrebbe sfiorare l’altra, lontane come il timore di sbagliare. Non mi voltai, perché sapevo che voltarsi non avrebbe colmato la distanza.Ma decisi di aspettare,temporeggiare ancora per strada. Purtroppo non lo rividi, ma mi rassicurai pensando che non sarebbe andato lontano e che prima o poi ci saremmo incontrati ancora, non so perché ma fui certa che se bazzicava lì, voleva dire che lo avrei ritrovato. 

Non avrei mai immaginato che un giorno non lontano da quel momento mi sarei ritrovata da sola con quella stessa persona in una casa vuota, alla vigilia di un lungo viaggio.

Lo pensai diverse volte, parlai di lui. Alla fine lo incontrai di nuovo, un mese dopo, in palestra, e fu delicatamente scioccante capire che era lui, almeno sembrava lui. Poteva e doveva essere lui. Ci guardammo, ci tenemmo d’occhio, diverse mattine, per svariati giorni. Ma nessuna parola, nessun cenno, io con il mio sguardo supponente lui con i suoi occhi indagatori e curiosi che non dissimulavano l’interesse che provava. Una mattina poi mi sfuggì un sorriso, e lui fu pronto a parlare, chiese se c’eravamo già visti e io mi feci avanti concedendogli prima la mia mano e poi anche il mio nome, presi in cambio il suo, mi voltai e me ne andai. Feci davvero così, senza nemmeno salutarlo, e capì, qualche minuto dopo, che la mia prolungata solitudine, dopo una lunga relazione lasciata da breve tempo alle spalle, aveva inibito gli ingranaggi del piacere. Cosa avrei fatto solo col suo nome? Nulla, e nulla feci. Ma anche lì ero certa che l’avrei rivisto. Perché non avrei dovuto rivederlo? 
A volte sono ingenuamente convinta che la vita degli altri coincida con la mia, con i miei tempi e i miei desideri, e quel giorno ero proprio preda di questo pensiero naive; credevo che non avrei mai smesso di incontrarlo. Ma quando fu lui a cercarmi, trovarmi e farsi avanti, dovetti riconsiderare la questione e accettare che la suddetta coincidenza dei tempi vitali non sempre è verificabile, e questa volta non lo era affatto. 

Dicevo, lui trovò il modo di scrivermi un messaggio usando un social network, si scusò per questo ma diceva che gli era sembrato l’unico modo possibile perché mi stava cercando e aspettando in palestra ma era il suo ultimo giorno, e due giorni dopo sarebbe partito per un po’. Una catastrofe insomma. Maledetto il caso pensai, ci faceva incontrare con la premessa di esserci già persi. 

Io comunque volevo incontrarlo, moltissimo. E lo feci, risposi. I nostri tempi, o quelli del mio lavoro, coincidevano solo per riuscire a vedersi la notte prima della sua partenza. Arrivai da lui alle 21:30 e uscì di casa quando lo accompagnai in stazione alle 6:30 del mattino dopo. Quello che successe in quelle ore fu solo squisitamente intenso e allegro. Facile e semplice come due persone che si incontrano e si piacciono. Il caso aveva spianato la strada è noi l'avevamo percorsa senza troppi timori. Ma la cosa migliore di questa fulminea conoscenza dal sapore un pò melodrammatico, è stata ritrovare nelle parole di lui tutte le ansie a me care, superate con estrema difficoltà solo accettando che il senso della vita è per me diverso da quello che intendono molti altri.In realtà, ad essere diverso non credo sia proprio il senso, ma diciamo la sua messa in pratica. 
Chi non sogna di essere felice? 
Chi non può affermare che il senso della vita sia la felicità o meglio la sua ricerca? 
Ma il modo in cui ognuno le dà la caccia non è forse diverso, personale e individuale?
Questo lui, con gli occhi malinconici tanto quanto i miei, con la simpatia e la dolcezza delle persone sicure ma anche passionali e intimorite, questo lui - che come dice - si è allontanato dalla sua professione, che si apprestava a partire per mesi perché in crisi con se stesso, che vuole lasciare questa città ma non sa ancora per andare dove, questo lui così simile a me, la sua comparsa e la sua prematura assenza, mi hanno permesso di riflettere ancora una volta su tutto quello che penso da un po'. E cioè che la vita non è altro che tempo. Quel caro lasso di tempo che ci viene concesso per esplorare noi stessi e il mondo circostante; il modo in cui, del tutto personale, decidiamo di compiere questa esplorazione riguarda solo il nostro io, e quello che gli restituisce la sensazione piacevole comunemente chiamata felicità.

Tanto tempo fa pensavo che se avessi scelto la professione giusta che faceva per me e avessi poi trovato il modo di essere pagata per quella e di viverci quindi, e se avessi poi anche trovato una persona giusta, emotivamente e sessualmente compatibile con i miei desideri, e sarei riuscita a riscattare l’idea che in due si può essere felici e sereni e che l’amore vero e puro per l’altro esiste e che avrei poi magari messo al mondo anche un figlio, beh lì - in quel punto e luogo immaginari - avrei senz'altro trovato la felicità, era questa la realizzazione massima di senso della vita, giusto? Se gli altri, in questi termini erano felici, anche io avrei dovuto esserlo. Ma c’era qualcosa che non mi tornava affatto, innanzitutto l’idea esatta di cosa avrei voluto essere professionalmente tardava a delinearsi e continuava ad essere cangiante, e questo era già molto destabilizzante, come era possibile? Poi c’era il fattore amoroso, le mie relazioni continuavano a finire, per noia, o per incomprensione. E poi l’idea bella e sana di mettere al mondo un figlio, che ancora è sotto esame. Tutto questo mi ha allontanata dal senso comune della vita - quello che mi sembrava scontato per altri - e mi ha inizialmente devastato di dubbi, paure, ansie e perplessità. Fin quando ho iniziato a cercare e scartare le convinzioni che non mi appartenevano, perché retaggio di una modo di vivere pensato come un patto sociale scritto da qualcuno, e che vale per chiunque allo stesso modo. A quel punto ho accettato l'idea di poter dare alla mia vita il senso che più mi aggrada e che più mi conduce vicino al sentimento personale di gioia. E ho considerato valida anche l'opzione di poter cambiare tutto, ogni volta che ne ho la possibilità, il desiderio o che ne sento semplicemente il bisogno. E mi sono anche e finalmente convinta che ognuno può essere felice in maniera diversa, con presupposti vari e totalmente arbitrari. 

Non so se questo modo di intendere l’esistenza sia solo utile a giustificare l'impossibilità di impegnarmi a costruire una vita con un percorso chiaro e definito o se sia invece rivelatore di una sincerità ampia e illuminante che mi aiuta a smascherare l’ansia e le paure, e ad accettare che ognuno ha la sua strada da percorrere, e che essa può cambiare spesso. Non sono certa che questo pensiero non sia del tutto un po' ruffiano, ma oggi mi sembra puro e sincero e mi permette di accettare che la felicità altrui, anche delle persone che amo, non coincida con la mia.

Quindi, se ora avessi ancora accanto quella persona, con quel volto e quegli occhi amichevoli, vorrei ringraziarla per aver stimolato in me alcune riflessioni polverose che avevano bisogno di essere argomentate, e aver soprattutto condiviso un lasso temporale pregno di gioia e piacere sincero. 

Ma ora che quel bel volto è lontano e i suoi lineamenti andranno piano piano ad affievolirsi penso solo alla furtività del caso, e a come mi ha fatta sentire fortunata.

Sono stata fortunata, anche per questa volta.