Decisioni Personali

E' una giornata fredda ma splende il sole.
La pioggia fitta e leggera mi bagna.
Cammino sul viale che fiancheggia il Policlinico Universitario.
Oggi odio la pioggia, di norma mi piace.
Stamane sono intollerante agli imprevisti e alle intemperie.
Il mio passo è svelto, lo sento, come se non dipendesse da me.
Mi affretto a cercare il numero civico 45.
Lo vedo davanti a me, attaccato ad una porta a vetri, sporchi e consumati.
La porta è aperta e do un'occhiata all'interno prima di varcare la soglia.
A destra, una sala d'aspetto con poche sedie in plastica marrone, è semivuota.
Mi assale un brivido di candida solitudine.
A sinistra uno stanzino, con una piccola scrivania bianca e una sedia da ufficio blu, è vuoto.
Che sensazione di decadente abbandono!
Mi addentro nel corridoio, che finisce in un'altra stanza più vissuta.
Qualcuno è seduto ad aspettare, con il volto stanco e spazientito.
Un'obliteratrice, attaccata parzialmente al muro, emette un suono continuo e stridulo.
Mi avvicino, qualcuno alle spalle mi dice che è rotta, niente numeri, basta fare la fila.
Mi guardo intorno, credo di essere nel posto sbagliato.
Controllo le indicazioni che ho scritto prima di uscire. Eccoci. Ho sbagliato.
Devo salire al secondo piano, edificio B.
Mi guardo intorno, osservo i segnali sulle pareti fredde.
Sono nell'edificio A.
Ritorno nel corridoio, asettico, seguo la segnaletica verso l'edificio B, eccolo.
Trovo le scale e inizio a salire. Salgo, salgo, salgo.
E salgo, e mi fermo al secondo piano, secondo i miei attenti calcoli. Sono insicura però.
Chiedo ad un uomo, in camice bianco, mi dice, gentile, che mi trovo a piano terra.
La notizia mi turba, ma non presto troppa attenzione alla cosa.
Questi edifici sono labirintici.
Continuo a salire le scale sporche.
Arrivo al secondo piano, questa volta è il secondo reale.
Per esserne certa faccio un'altra rampa di scale e vedo che non ci sono altri piani.
Scendo la rampa. Mi fermo davanti la porta, non riesco ad aprirla.
Non ci provo perché non voglio, tremo.
Tremavo già da un po', però me ne accorgo solo quando guardo la mia mano davanti a me.
Trema lui. Tremo io.
Apro la porta, il corridoio è illuminato con le luci al neon.
Su ogni lato una fila di sedie.
Alcune vuote altre occupate, qualcun' altro che aspetta, anche qui facce stanche.
Vado avanti, percorro il corridoio cercando la stanza numero 4.
Eccola. Mi avvicino.
Sto per bussare ma si apre la porta.
Esce una donna in camice verde, entro io chiedendo permesso.
La donna dietro la scrivania, in camice bianco, mi guarda.
Esistono solo i suoi occhi, non vedo nient'altro.
Le dico il mio nome senza staccarle gli occhi di dosso.
Mi guarda.
La guardo.
Cerca la busta mentre la guardo.
La prende, mi guarda.
La guardo, mi sorride.
Non capisco quel sorriso.
Apre la bocca in un attimo che mi sembra infinito, e guardo la sua bocca senza sbattere le palpebre.
Mi dice Negativo.
Respiro, finalmente.
Respiro, profondamente.
Le stacco gli occhi di dosso e mi giro.
La finestra è aperta, entra la luce.
Non piove più.
E' sereno il cielo fuori.